Enoturismo triste et dulce

Ripensare l’enoturismo guardando vicino. Tra le righe di Vinokrazia

Il vino che non è e che diviene

Per un Vinokrate l’enoturismo raccoglie insieme la premessa del vino e il punto d’arrivo che realizza. Perché il vino non è, ma diviene. Con il termine ‘enoturismo’ indichiamo una declinazione dell'accoglienza in ambito vitivinicolo e un momento di esaltazione estetica durante il quale l’incontro e il vissuto dovrebbero aggiungere qualcosa di unico all’esperienza privata. Infatti, senza enoturismo e in un faccia a faccia con il bicchiere, nessuno potrà partecipare, anche per poche ore, a quella vicenda eroica che tanto ha scatenato il sogno, praticato reminiscenze, proiettato nell’incontro tra natura e cultura. Soltanto da enoturista ognuno potrà mostrare il suo coraggio di cavaliere e agire da protagonista in una vicenda a lui ormai contemporanea.

Senza enoturismo c’è la degustazione privata (non il gusto proprio), la contrattazione, il calcolo di convenienza, la reificazione dello scambio finalizzata il consumo domestico. Se questo bastasse, se ci si accontentasse del profilo solitario della bottiglia con il nostro divano a fare da scenografia, nessuno sarebbe portato a offrire il racconto e nessuno disposto a pagare per il racconto altrui, per il tempo donato e per tutte le sagge finzioni. Il plusvalore semantico di questa narrazione ha un costo. Chi ti fa entrare nel suo castello è disposto a farti ammirare la sua vita convinto che la tua non meriti altrettanta attenzione. Ubi angulus… diceva qualcuno.

Qui si tratta di indagare se il vino sarebbe lo stesso una volta privato del portato immaginativo che gli compete e che l’esperienza enoturistica gli vuole additare, più o meno come si prova un abito che si sa di non poter acquistare. Enoturismo come immedesimazione, compimento ed epilogo. Il vino come proiezione o come oggetto qualunque.

In questo sistema di riferimento, una componente accrescitiva e straniante non permette di equiparare il vino a un generico prodotto di scambio. Parte della Vinokrazia muove dalla convinzione che l’eminenza del vino per un produttore permanga anche quando costui concepisca il suo prodotto solo attraverso lo scambio. Il Vinokrate vuole credere, poiché ama per un tempo ragionevole i teneri inganni, che qualsiasi produttore di vino sia e resti ben consapevole della propria eminenza.

Ma il tempo di questo inganno è breve. Tempus fugit velut umbra ci torna da qualche rimaneggiamento. Realizzare il racconto e l’inganno seducente che si porta dietro non è cosa da tutti. C’è chi ama l’allegoria del racconto e chi rischia di umiliare sé stesso a parole. Priorità, dunque, all’uomo come riuscita della combinazione uomo-natura e attraverso tutte le esaltazioni semantiche del vino. Poi venga pure il vino, la sua corretta rappresentazione organolettica e, a seguire, il bisogno fisiologico di chi lo consuma dissetandosi.

Prima l’uomo o il vino? Eminenza e rettitudine

L'eminenza è capacità di svettare, di distinguersi rispetto alla linea continua. In virtù dell’eminenza decodifichiamo la rettitudine con cui soltanto ciò che merita di essere, in fondo, è. La rettitudine corteggia l’eminenza trasfigurando in essere buono ciò che altrimenti non dovrebbe essere proprio. Ogni vino per dirsi tale deve muovere dalla rettitudine del suo significato. Senza significato è solo bevanda alcolica, priva di rettitudine (giustamente) e di eminenza (il succo in scatola non merita la nostra attenzione). Ma qui compare la questione che l’enoturismo enfatizza: prima l’uomo e la sua esperienza piuttosto che il prodotto. Non conviene quindi edulcorare eminenza e rettitudine perché l'uomo ci basta. Ma questa anticipazione si sottopone subito all’obiezione: come dare spazio a un’esperienza enoturistica di valore senza avere un valido prodotto tra le mani? Se per un Vinokrate è implicito che l’eminenza e la rettitudine giustificano tutto ciò che è, solo in virtù di questo l'uomo resta al centro della manovra enoturistica prima di passare a considerare il vino. Mentre spostandone la comparsa alla fine del processo, cioè dando priorità al vino in virtù della sua riconoscibilità materiale e approvata, si rischia di ricadere nell’assolutismo mercantile del prodotto che, attraverso mode, punteggi e quote di mercato, dirige l’esperienza enoturistica vincolandola e assediando la decisione del degustatore frastornato. Che si parli di vino, dunque, soltanto alla fine, quando l’uomo, nell’autonomia del suo pensiero giudicante potrà, oltre ad aver vissuto il significato grazie al prodotto, aggiungere un giudizio sul prodotto.

L’avventura dell’enoturismo è la grande occasione per illustrare una personale definizione di qualità e impegno, di dichiarare il primato del proprio prodotto in virtù di scelte proprie e cioè di giocare la partita al tavolo della valutazione. Ancora a carte coperte. Personalizzazione, creatività, dosaggio delle componenti emotive e ricerca dell’unicità sono gli strumenti che si agitano attorno alla convenzione enoturistica come momento d’incontro.

La memorabilità come occasione dell’enoturismo

All'enoturismo è soprattutto richiesto di sventare le macchinazioni di un mercato affollato da celebrità, occupato dalla ripetizione della forma e del modulo, asfissiato dalla notorietà del nome, dal prezzo, dal sentito dire. La comunicazione ha concupito anche chi amava intrattenersi con gli alberi. Tuttavia, questo consente di occupare il bisogno più autentico dell’appassionato e più rischioso per il produttore: facilitare un'esperienza non ordinaria attraverso impalcature cognitive ed emotive non indotte. Bevi il tuo vino ma pensalo con i tuoi occhi e vedilo con i tuoi argomenti. Oppure, fai come vuoi, ma non ascoltare nessuno.

L’occasione enoturistica parla di memorabilità non soltanto deridendo il produttore contento di aver venduto la sua partita di bottiglie. Dietro questo fallimento, infatti, essa dovrebbe evitare la somiglianza come dispositivo omologante. Il memorabile fuoriesce da un’analisi in cui lo strumento adottato non è solo il metodo di scuola. Per offrire un’esperienza memorabile, l’enoturista autentico accerta la bontà della proposta e indaga il suo merito.

Purtroppo oggi fare impresa nel vino significa anzitutto reperire canali mediatici appropriati per inserirsi in una gerarchia valoriale ed essere allineati. Al contrario, vendicare con mezzi opportuni la destituzione del più intimo e giusto significato del vino è possibile, agendo contro ogni gerarchia che abbia come obiettivo il rendimento e non l’argomento. Quando il dato economico, il rendimento, sostituisce l’etica cioè la sovrastruttura che abilita il nesso vino-cultura, un sano valore produttivo non basta per poterla soddisfare nel modo migliore. Vendi pure il tuo vino, ma dimentica di averlo fatto perché non è là che hai fatto del bene. Anche se hai creato il bisogno e l’illusione di poter ripetere l’esperienza offerta, anche se hai intercettato il sentimento altrui e guadagnato la fiducia di un povero enoturista, non è questo il tuo merito. Tu sai di avere qualcosa da dire se la tua proposta è sanguigna. Piuttosto che creare un bisogno da zero, espiantando una tradizione o colonizzando un territorio vergine, chi maneggia il vino deve aver sempre qualcosa da dire.

Così la responsabilità etica del produttore deve guardare al valore inestimabile dell’esperienza e comprendere che il significato disperso avrà certamente più valore di una bevuta. Qui parliamo al produttore che ha davanti la due possibilità, entrambe etiche: creare un bisogno da zero e valorizzare nel modo migliore il bisogno in essere.

Per questo, l'enoturismo è la strategia sottesa alla consegna del prodotto ma anche l’opportunità di soddisfare oltre l’appagamento del gusto. Si dice sempre che tra le sue opportunità vi siano: facilitare il rendimento sistemico della vendita diretta; profilare la coerenza del brand per un'inevitabile partecipazione o immedesimazione; aiutare a fidelizzare. Nessuno parla, come disse un giorno Fichte, di creare l’uomo.

Gli scenari cognitivo e causativo

Due scenari allora per impostare la centralità di una proposta enoturistica. Il primo lo definiamo cognitivo, l’altro causativo. C’è da dire che il contesto causativo si espone a un rischio d’errore maggiore e a una diversa complessità dovuta all’invenio, alla creazione di argomenti (visivi, esperienziali, comunicativi, ecc.) che deve essere in grado di prevedere, per la sua stessa sussistenza o per evitare di vanificare da subito i suoi sforzi, gli effetti a cascata della serie di decisioni prese. Con un banale esempio: se trovassimo il modo di convertire la produzione di vino da invecchiamento verso quella per il consumo veloce al punto da far scomparire l’idea di attesa e maturazione, potremmo riscrivere il destino del gusto in funzione della quantità e non di un diverso assetto qualitativo. Verrebbero mutati i bisogni e le abitudini al consumo e potremmo osservare molti degustatori disposti a spendere meno per un gusto disegnato sulla velocità, sull’effetto lampo. Questa strada non percorsa – almeno finora – ha consacrato su scala globale una scelta più allineata alla diversificazione e al soddisfacimento di esigenze complesse e raffinate; ha aderito alle specificazioni del gusto, nelle sue stratificazioni e nel lascito di antichi saperi, talvolta anche inconsapevoli; ha provato a reperire più variazioni ed incognite rispetto al livellamento della soddisfazione informe come appetito di base.

Arriviamo alla progettazione cognitiva. Chi è detentore di un sapere potrebbe anche non essere in grado di veicolarlo nel modo migliore. Si ha spesso la fortuna di frequentare piccoli tesori (dalle ricette dei nonni alle ricchezze paesaggistiche avute in eredità) senza sapere come dimostrare, mantenere e potenziare la fortuna toccata in sorte. Per 'dimostrare' ci si potrebbe forse limitare a rimettere in atto pratiche introiettate, destinando alla ripetizione del gesto ('mantenere') e del relativo valore la seconda fase del momento cognitivo. Meno scontata è l’azione del 'potenziare' proprio perché da semplici comparse si è chiamati a essere protagonisti e ad aggiungere quanto i propri e fondati riferimenti spazio-temporali, quelli del qui e dell’ora, possono offrire in modo arricchente.

Ma torniamo all’enoturismo. Qualcuno lamentava come il totale disinteresse degli enoturisti verso la conoscenza delle pratiche di cantina e verso l’esperienza di degustazione condotta direttamente nella ‘casa del vino' costituissero un'incognita imprenditoriale di non facile soluzione. Data la valutazione per buona (cioè ammesso che siano stati rispettati tutti i criteri didattici per appassionare l'enoturista creando un'esperienza e non una lezione), si può supporre che il risultato sia dipeso da disinteresse o pigrizia per il nuovo come dall’anonimato di un’esperienza che, in fondo, non è in grado di soddisfare il vero, ultimo motivo per il quale si decide di essere enoturisti. Cosa cerca davvero un enoturista? Soddisfare i suoi bisogni significa anzitutto conoscere quelli reali (non quelli traslati). Ci si rende ben conto che muoversi in un contesto causativo significherebbe, almeno in questo caso, padroneggiare un’infinità di scenari possibili e affrontare una responsabilità progettuale gigantesca senza aver pienamente capito se valorizzare o meno un modello cognitivo già in atto e funzionante. In altre parole, scegliere di diversificare l'offerta enoturistica, pensando e offrendo infinite possibilità di intrattenimento, non sembra afferire al momento cognitivo in cui non è la distrazione offerta dalle infinite variabili possibili a rappresentare un valore aggiunto, ma l'approfondimento dell'esperienza costruita per intensità e durata. Detto altrimenti, c’è bisogno di quella lungimiranza predittiva che suggerisca di perlustrare e preferire soluzioni già presenti e non ancora integralmente esplorate.

Si introducano, dunque, una narrativa non standardizzata (i tour a ripetizione sono omologanti e spersonalizzanti), un adattamento delle proprie capacità narrative e un utilizzo empatico della parola.

Se l’enoturista non cerca tecnicismi e saperi vetusti ma il sensazionalismo dell’esperienza vissuta, bisognerà provare a trasfondere le componenti culturali all’interno di un vissuto più contemporaneo e senza rinunciare al portato storico che lo ha reso possibile. Ribadiamo che la complessità del vino non si può affrontare con un’esperienza-lampo che non tenga conto di metodi produttivi, storia locale e storie di villaggio, scelte e adattamenti, personalismi. Ora deve emergere un’etica nella professione del mediatore. Per questo è necessario investire su una figura professionale e dedicata che sappia armonizzare i linguaggi e padroneggiare le lingue, che conosca le scelte produttive e i processi, che si sia documentata sul patrimonio che tenta di raccontare. C’è bisogno di una narrativa non standardizzata (i tour a ripetizione sono omologanti e spersonalizzanti), di un adattamento delle proprie capacità narrative e di un utilizzo empatico della parola, per comprendere le ambizioni dei visitatori e gli eventuali limiti, per agire con onestà e rinnegando il sotterfugio della vendita, per riassumere il momento in un’esperienza di vera condivisione e insegnamento reciproco. Molto spesso sono proprio i turisti stranieri i degustatori più informati ed esigenti ed è per questo che il mediatore deve scegliere i canali empatici per anticipare tematiche e concessioni, per anticipare bisogni e per fare dell’espediente un luogo d’incontro.

Sembrerebbero solo belle parole ma c’è un riscontro immediato per questa ricetta sensibilizzante. Possiamo allora assistere a due conseguenze virtuose per questa strategia. L’enoturista introietta l’esperienza e la diffonde. Il mediatore ha agito per agire di nuovo, per alimentare il mercato della conoscenza ripetibile e consigliabile. L’attività di sharing è molto più intensa quando condotta dal vivente che rispetto a un algoritmo. Inoltre, saranno la stessa coerenza ed eticità che hanno animato l’emersione di questi contenuti a consolidare il brand all’insegna della sua compostezza e perennità. Il potenziamento avverrà dall’interno quando le radici ben piantate di un sapere circolare avranno conosciuto l’ampliamento restando fedeli alla loro origine.

Come sempre Zum Wohl... alla vera salute!

Vinokrazia – Vini senza ieri

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